Vale 8,9 miliardi di euro il sistema mangimistico italiano, occupando il sesto posto tra i big europei con il 9%. E’ quanto emerso dalle anticipazioni di uno studio Nomisma e presentato nel corso dell’assemblea annuale di Assalzoo. Un risultato ottenuto nel 2017 con 385 imprese coinvolte e circa 9 mila occupati, dove la quota più rilevante del fatturato fa riferimento al comparto dei mangimi composti (6,2 miliardi pari al 70% dell’intero sistema), seguito da quelli delle premiscele e del pet-food (rispettivamente 14% e 16%). Lo stretto legame con l’allevamento fa sì che l’industria mangimistica sia localizzata per lo più nel Nord Italia. Piemonte, Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna detengono, infatti, l’85% del fatturato nazionale del settore, cui si aggiunge il 4% dell’Umbria e l’11% delle altre regioni italiane. A trainare il settore è uno zoccolo duro di grandi imprese: il 29% con un business di oltre 20 milioni di euro genera l’85% del fatturato totale. Lo studio mette in evidenza il ruolo rilevante dell’industria mangimistica italiana ma, come ha fatto notare Ersilia Di Tullio di Nomisma, sconta rispetto ai partner europei, un deficit di competitività legato ai rilevanti costi energetici, all’elevato carico contributivo e fiscale che grava sul lavoro, alla minore efficienza del sistema dei trasporti. In questi ultimi 10 anni, inoltre, il settore ha dovuto affrontare una contrazione della produzione nazionale di materie prime che alimenta una forte dipendenza dall’estero. Nel 2018 l’auto approvvigionamento è pari ad appena il 52% per il mais, il 33% per il frumento tenero e il 22% per la soia. (Ansa)
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